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Diario (blog)S&S

OLIN STEPHENS – my interview for Yachting World

Olin Stephens

di Edoardo Napodano

Nel maggio 2002, Edoardo Napodano intervistava in esclusiva per Yachting World Italia Olin Stephens, leggenda vivente dello yacht design del XX secolo. Le sue barche bellissime hanno vinto tutto il possibile, dall’America’s Cup alla Whitbread. Ve ne proponiamo un estratto perfettamente attuale a un mese dalla scomparsa del centenario Olin.

Olin Stephens è una persona sulla cui incredibile e straordinaria genialità, in più di settant’anni di carriera ed otto vittorie di America’s Cup, è stato scritto tutto e gli sono state fatte interviste nei cinque continenti. Nonostante questo, ha chiacchierato con gioia e allegria insieme a noi raccontando alcuni episodi della sua carriera secolare.

– “Vorrebbe ricordare quando ha deciso che lo yachting, in particolare la progettazione, sarebbe stato il suo futuro? Quando e come ha cominciato?

– “Proverò, ma mi chiede di risalire ad un passato molto lontano: non ricordo di essere mai stato troppo giovane per interessarmi allo yachting…

Sono cresciuto in una famiglia che aveva una casa sul lago nello stato di New York. Un lago molto carino chiamato Lake Gorge. Questo lago è circondato da colline e da piccole montagne e non si credeva possibile poter praticare la vela perché, tra le altre cose, sembrava che il vento fosse troppo variabile. La mia famiglia possedeva un paio di motoscafi e quando avevo circa 10 anni trascorrevo le vacanze estive sul lago. Finita la Grande Guerra mio padre, che era stato nell’esercito, decise di passare all’acqua salata. Fu la prima estate in cui andai in barca a vela ed apprezzai molto di più quel movimento graduale, del formarsi lento delle onde che increspavano l’acqua. C’era qualcosa di perfetto in questo e ne restai letteralmente incantato.

Volevo solo fare vela, capii che desideravo unicamente progettare barche; avevo dieci o undici anni. È così che ho iniziato”.

– “Poi incontrò Drake Sparkman, figura sulla quale nessuno, o quasi, sa nulla”

– “Fu molto tempo dopo, naturalmente”

– “Aveva diciassette o diciotto anni, non è vero?”

– “Si. Eravamo entrambi interessati alla vela e – come dicevo – io ne ero fortemente appassionato fin dagli esordi.

Anche mio fratello mostrava interesse, ma con maggiore inclinazione per la meccanica. Quando era molto giovane aveva un motoscafo e si dedicava a quello, mentre io avevo una piccola barca a vela. Inizialmente mi muovevo solamente nella baia tra Cape Cod e Martha’s Vineyard, una Vecchia isola dove in tempi passati si praticava la caccia alla balena, con una consolidata tradizione nella costruzione di barche a vela.

Crescemmo e il nostro interesse aumentò. Mio padre – Roderick Stephens Sr. mercante di carbone, una sorta di odierno petroliere – assecondò la nostra passione con generosità. Non credo fosse così interessato quanto lo eravamo noi. Ma ci diede comunque l’opportunità di fare vela.

Comprò una o due, forse tre, piccole barche tramite Drake Sparkman. Lui era un broker, come noi appassionato alle piccole barche a vela e con il passare del tempo venne a conoscenza del mio interesse alla progettazione. In quel periodo, per gran parte dell’anno, frequentavo l’università, ma non mi piaceva proprio. E non ci fu poi tanto da fingere a riguardo, tanto che mi ammalai e dovetti abbandonare.

Una volta guarito, trovai lavoro presso lo studio di progettazione navale di Philip Rhodes. Lavorai lì per qualche mese, poi iniziai a disegnare nell’ufficio di Drake Sparkman.

Il primo anno ricevemmo un ordine per tre piccole barche, fortunatamente le cose andarono proprio bene, così formalizzammo e fondammo l’attività. Avevo 21 anni e potere di firma. Da lì iniziò tutto”.

Della Sparkman & Stephens si conosce e ricorda la quasi mitica figura di Olin, ma non dobbiamo dimenticare il fratello Rod, scomparso poco più di dieci anni orsono, è stato probabilmente uno dei massimi esperti di yachting del XX secolo – i cromosomi dei due fratelli contenevano vele ad alta tecnologia! – Rod si occupava di piani velici e piani di coperta ed era lui in prima persona ad effettuare i test delle barche progettate dallo studio, in giro per il mondo.

– “In che modo suo fratello Roderick fu coinvolto durante questo periodo?”.

– “Era appassionato di barche quanto me, ma io avevo un’inclinazione più accentuata sul piano teorico e lui più sul piano pratico ed in particolare era interessato alla costruzione. Andò anche al college per un anno. Credo che se la sarebbe cavata bene, che l’ambiente accademico non gli pesasse quanto era pesato a me. A Rod piaceva il college. Ma Herny Nevins, che allora aveva il miglior cantiere navale di New York City, lo tentò con la lusinga di introdurlo ai concetti della costruzione navale e promettendogli il successo. Sena un vero e proprio accordo, ma con la promessa che gli si sarebbe aperto il mondo delle costruzioni navali.

Così Rod lasciò il college e lavorò in queste condizioni per diversi anni, credo tre, prima che partisse la nostra società Sparkman & Stephens Inc.. Devo dire che Rod fu molto contento di venire da noi, piuttosto che continuare a vivere di promesse. Rod era alla ricerca di grandi progetti e supervisionava l’attività di costruzione per la nostra barca Dorade con cui vincemmo una regata transoceanica. Era il 1931”.

Dorade, su cui si sono letteralmente consumati litri di inchiostro, è la barca che ha segnato l’inizio dell’era moderna dello yachting a vela. Fu commissionata dal padre dei due fratelli Stephens. Costui credeva a tal punto nelle potenzialità dei giovani entusiasti, che non ebbe alcuna difficoltà a finanziare di tasca propria, in epoca di profonda recessione – era il 1929! – la costruzione del veliero: se avesse avuto successo, sarebbe stato il veicolo pubblicitario migliore per far decollare la Sparkman & Stephens. Ricordiamo che al rientro dalla vittoriosa transatlantica del 1931, a Dorade sul suo invaso ed agli Stephens fu concesso di attraversare in parata la 5° strada, a New York – onore concesso solo ai grandi statisti e ai Reali – con centinaia di migliaia di persone che dalle finestre dei palazzi lanciavano fiori e cantavano inni di gioia.

Piace ricordare che Dorade è stata restaurata a regola d’arte in Italia circa tre anni fa [intervista del 2002 NdA], da Federico Nardi del Cantiere Navale dell’Argentario.

– “Dopo ciò – continua Olin – Rod venne da noi e dal momento che avevamo sempre più commissioni, si occupò di controllare le costruzioni e si prese spesso cura di testarle con viaggi di prova. Ricoprì immediatamente un ruolo davvero importante, anche se non era stato con noi da subito”.

Rod sosteneva che osservando una moderna barca da crociera o da regata, che fosse costruita in serie oppure custom, non era possibile fare a meno di notare un’infinità di piccoli particolari che, messi tutti insieme, potevano fare la differenza tra una barca appena accettabile ed una che fosse un vero piacere condurre e possedere, anche dal punto armonioso delle forme.

– “Entrando nel merito del design, quanto significa il look delle sue barche? Le barche S&S sono generalmente molto belle, quanto era importante per voi e per i vostri clienti l’aspetto estetico?”

– “Non è molto facile dire quanto fosse importante. In realtà quando iniziai a lavorare, il mio approccio fu più basato sull’istinto che sul calcolo puramente scientifico. Sentivo che ciò che dava un aspetto bello e pulito e che rendeva la barca attraente agli occhi, risultava favorevole anche sul piano delle performance. La mia sensazione era che la linea dovesse essere pulita e continua, che il suo sviluppo da poppa a prua dovesse essere coerente. Nessuno vuole avere la poppa di una barca e la prua che sembri di un’altra! Devono esser parte della stessa entità.

Penso sia tipico del periodo di cui ho iniziato che la cosa più importante fosse avere un buon occhio per le barche. Esattamente non sono certo di cosa voglia dire, ma sicuramente avevo una buona dose d’intuito. Non ero molto ferrato sul piano matematico, ma ne sapevo abbastanza per rimanere interessato in cose come il model testing. Incontrai, il Prof. Kenneth S. M. Davisdson, dello Stevenson Insitute of Technology. Lui, ingegnere meccanico poco più vecchio di me, con la passione per le barche, sviluppò un metodo di testing di modellini su scala sufficientemente piccola affinché fossero economicamente alla portata di progettisti, costruttori o armatori”.

Fino ad allora erano stati fatti dei test per mettere alla prova in vasca le caratteristiche delle barche, partendo da un modello intagliato nel legno – i “mezzi scafi” – le cui linee venivano successivamente riportate su carta con uno strumento apposito, una sorta di pantografo congeniato da Nat Herreshoff. Questi test, più che tecnologici erano “casalinghi”. Olin Stephens e Davidson, spinti dal desiderio di apportare scientificità alla progettazione, affrontarono l’argomento con metodologia, dando vita ad un tipo di prova, appunto quella in vasca, che a noi oggi appare del tutto normale e logica, ma non lo sarebbe senza di loro.

– “Ma torniamo agli anni ’30…”

– “Avevo una discreta esperienza di vela nella classe dei 6 metri e quando i regolamenti di regata internazionali vennero accettati dagli USA, all’incirca in quel periodo crescendo l’interesse verso la categoria, ricevetti un buon numero di ordini che si rivelarono di un certo successo”

– “Goose ad esempio e Mizar III, costruito ed ancora oggi di proprietà di Sangermani”.

– “Ricorda qualcuno, oltre a suo padre, che l’aiutò agli esordi della carriera?”

– “Avevo un ottimo amico più vecchio di me che fu attivo proprio nella classe dei 6 metri e che si era ritirato dopo un’esperienza giovanile di grande successo come progettista di yacht, per seguire attività di famiglia immagino più redditizie. Anche lui era interessato al model testing ed ebbe abbastanza fiducia da mandarmi alcuni suoi amici come potenziali clienti. Questo mi ha aiutato parecchio per iniziare. Poi una cosa tira l’altra…”

– “… fino alle 50 persone che lavoravano alla S&S nel dopoguerra. In uno dei tanti libri biografici (You Are First, di Francio Kinney, 1978) si dice che il fatturato relativo alla progettazione di yacht, nel 1950 fosse di circa $ 1.000.000, una cifra incredibile, se si pensa alla dimensione dello yachting in quell’epoca. Non esistevano le società di charter, e possedere una barca da diporto era cosa riservata a pochi facoltosi”

– “Nel momento di massima espansione arrivammo addirittura ad un centinaio di dipendenti. Dopo il 1945, gli USA ebbero ancora la Guerra in Corea e noi progettammo od almeno facemmo il design strutturale, di una serie di Mine Sweeper (cacciamine). Il Governo ne commissionava la progettazione ad aziende esperte in barche di legno – per questa ragione fummo interpellati – in quanto c’era il problema delle mine e questo tipo di naviglio non generava campo magnetico. Perfino i motori erano di bronzo anziché di acciaio. Così in quel periodo la nostra società fu abbastanza impegnata”

– “Com’era composto il suo staff?”

– “Per lo yacht design strettamente inteso, avevamo circa cinque, sei o sette tecnici, una segretaria e magari un paio di impiegati. Ma era un piccolo gruppo felice, una buona squadra compatta. Poi immediatamente dopo la guerra, S&S divenne un ufficio molto più grande e facemmo anche altro lavoro per il Governo”.

Un giorno, verso la seconda metà degli anni Sessanta, Rod Stephens si trovava in Finlandia per un appuntamento di lavoro, quando ricevette una telefonata. Un appassionato yachtsmen locale lo voleva vedere per fargli una proposta di affari. Stephens, che aveva ben poco desiderio di perdere tempo, acconsentì di incontrarlo, ma lo convocò alle 5 della mattina successiva, solo allo scopo di metterlo alla prova. Il finlandese Pekka Koskenkyla, propose a Rod Stephens di costruire in serie una barca della classe One Ton che aveva mietuto diversi successi nelle acque inglesi. Da questo incontro nacque un sodalizio che durò molti anni ed il primo degli Swan disegnati da S&S: lo Swan 36.

– “Come cominciò la Joint Venture con Nautor in Finlandia?”

– “Beh, non fu tecnicamente una Joint Venture. Penso che loro semplicemente ci assunsero per fare il lavoro di progettazione e noi fummo felici di farlo perché era  un buon lavoro.

Nell’immediato dopoguerra o poco dopo, l’uso della fibra di vetro e di altri materiali sintetici, divenne utile per la costruzione di barche e noi l’impiegammo per una barca che divenne famosa come la One Ton Cup Series”.

Si trattava dello Swan 36, disegno S&S n° 1710.51. Prosegue Olin: “Quelli della Nautor pensarono potesse essere una buona idea usare un progetto fondamentalmente molto simile per la loro prima barca: lo Swan 36. Scelsero il cigno, uccello nazionale, simbolo della Finlandia, come nome per la barca.

Ci fu poi, all’inizio del decennio successivo, un incendio che distrusse totalmente il cantiere e dal momento che sul piano finanziario non erano mai stati solidissimi, una grossa società cartiera (statale) comprò le azioni della compagnia.

L’ex titolare, lo conosco ancora, è una brava persona, ma è meglio come velista che come costruttore di barche!

La seconda barca che facemmo insieme, fu perché avevamo progettato un 43 piedi per un finlandese associato con i Lloyds, Ake Lindqvist. Io e mio fratello Rod facemmo il progetto e quando il committente finlandese Koskenkyla disse che voleva costruirla in serie, ne fecero lo Swan 43, che grazie a Rod venne bene, per quanto riguarda le prestazioni.

Fornimmo lo stesso disegno a tanti altri committenti, privati, appassionati di autocostruzione. Alcuni fecero questa barca nel loro giardino di casa e tutto questo successo si deve alla grande fama che ebbero gli Swan progettati da noi, che in America venivano prodotti su licenza dalla Palmer Jhonson.

– “Quando e perché smise di lavorare per Nautor?”

– “Penso francamente che forse come responsabile mi ero spinto un po’ troppo in là. Avevamo assaggiato barche un po’ troppo veloci e rimasero un po’ delusi da alcune successive. Ma una delle ultime lo Swan 48, penso fosse un veliero eccezionalmente buono e francamente uno dei migliori che abbiamo mai fatto. Ci vinsero una gara intorno al mondo, ma credo che alla Nautor ritenessero di poter migliorare i loro record di gara. Non avrei avuto nessun problema con ciò, ma stavo comunque cercando di andare in pensione.

– “Chi fu il successore?”

– “Il testimone passò ad un ottimo progettista, mio caro amico, Ron Holland. Fece qualche lavoro per loro e poi German Frers proseguì. German aveva molto successo nel campo delle barche da corsa. Suo padre era un designer molto affermato in Argentina. Venne negli uffici della S&S per qualche periodo e poi si mise in proprio lavorando per Nautor. Ancor oggi è il loro progettista. Aprì un ufficio in Italia ed ebbe soddisfazioni con bellissime barche.

Vidi una barca a Portofino – splendida – una delle poche barche nuove che mi sia davvero piaciuta. Ma questa è solo un’opinione personale. Chiesi di chi era e scoprii che era di German”.

E parlando di Italia il discorso verte su un vecchio amico di Olin, una delle figure di primo piano nella storia dello yachting tricolore, Tony Pierobon. Dentista di fama mondiale, si trasferì da giovane in Inghilterra e fu letteralmente assalito da bruciante passione per la vela, forse anche spinto dall’ambiente che a Londra aveva occasione di frequentare (John Illingworth, Mary Pera, Laurent Giles, Uffa Fox…). Rientrato in Italia, con una piccola barca di J. Francio Jones, Pierobon non tardò a voler prendere parte alle grandi regate d’altura. La scelta del progettista, per un uomo che aveva avuto occasione di assaporare il mondo internazionale (erano gli “anni di piombo”, in cui l’Italia era letteralmente imprigionata nei propri confini) non poteva che cadere su Sparkman & Stephens. Fu così che Pierobon, con in mano un disegno, chiese al cantiere che aveva costruito il piccolo sloop di J.F. Jones, di fargli una nuova barca. Il costruttore era Carlini e le sue barche parlano per lui. Pierobon è anche noto agli appassionati per essere stato l’ideatore della famosa e gloriosa Alpa 12,70.

– “Si ricorda dell’amicizia con Tony Pierobon?”

– “Alla fine degli anni 60 la One Ton Cup venne vinta da un 36 piedi che divenne – come dicevo – il primo degli Swam. Poco dopo, tra altri progetti delle stesse dimensioni, realizzammo quello per Tony Pierobon. Divenne un buon cliente e un amico. Ma nel privato era più vicino a mio fratello: loro non solo facevano vela insieme, ma sciavano pure. Io ad eccezione di un po’ di fondo, non facevo altri sport. Loro invece andavano a sciare insieme a Saint Moritz durante il periodo invernale.

Realizzammo parecchi progetti per lui nella la One Ton Class. Non penso la vinse mai, se ricordo bene. Quando ero in Italia andavo a trovarlo. Ricordo una volta quando avevo una macchina nuova, una Porsche, penso che fosse la 356, che necessitava di assistenza a Milano. Tony mi disse di prendere la sua piccola Alfa Romeo. Come si chiamava quel modello, una macchina davvero piccola, con un motore molto potente?”

– “Penso fosse una Giulietta GT, una decappottabile”

– “Andai fino a Portofino. Tony mi raggiunse il giorno dopo. Avevamo tutti e due macchine sportive ed entrambi amavamo ed apprezzavamo l’esperienza della guida, come pure della vela ed anche dello sci. È stata a tre livelli l’amicizia che ci legava a Tony. È un buon amico qui in Italia. Nel vostro Paese sono sempre riuscito a fare delle buone amicizie.

– “Sa che questa macchina esiste ancora e chi la possiede è l’armatore di Paxos?”

– “Oh, davvero?”

– “Si, Paxos l’ultimo classe One Ton Cup progettato da lei per Marina Bulgari”.

Paxos (disegno S&S n° 2119, del 1972) fu commissionata da Marina Spaccarelli Bulgari – grande antagonista in regata di Pierobon – ed aveva caratteristiche eccellenti ed avveniristiche da un punto di vista strettamente agonistico e costruttivo, a totale scapito dell’abitabilità interna, molto sacrificata e meno curata. Era una barca che doveva svolgere un solo compito: regatare e vincere, al comando di Agostino Straulino.

– “Penso che alcuni velisti, specialmente quelli con interesse nella progettazione, abbiano apprezzato le macchine sportive e quando me le sono potute permettere, ho scelto macchine sportive italiane o tedesche. Mi divertiva la guida. Ho avuto un debole per le Porsche: ne ho avute due, prima una 356, poi una 911 con un motore più grande e molto potente, era divertente guidare.

Avevamo una barca in costruzione a Marina di Carrara vicino alle cave di marmo. Scorazzavamo su e giù per le colline. Era un posto fantastico per guidare una buona macchina. Mi piaceva questo genere di cose”.

– “Ha avuto macchine sportive in America o solo qui in Italia?”

– “Non ho mai avuto macchine sportive americane, le macchine sportive conosciute lì erano per lo più grandi e a me sono sempre piaciute quelle piccole. Una volta ho avuto un modello Ford IA e un Ford VH leggera e piccola, abbastanza potente e vivace.

Dopo la guerra, il dollaro americano era forte e comprai una macchina per spedirla a casa. Le tasse doganali non erano molto alte, così mi sono potuto permettere quel tipo di macchina e me la sono davvero goduta. Il primo lungo viaggio che feci in Europa fu a Venezia per 3 settimane o più, una combinazione tra viaggio di lavoro e di piacere, ma soprattutto di molto piacere!

Mia moglie ed io prendemmo la macchina ad Amburgo, beh io la presi ad Amburgo ed andai a prendere mia moglie in Francia, poi venimmo in Italia: guidammo attraverso Austria, Germania e Olanda. Sì, spedimmo indietro la macchina. Avevamo dei buoni amici, clienti olandesi… una famiglia molto carina [Herman Schaedla, titolare del cantiere Abeking & Rasmussen Nda].

– “Indossa un bellissimo orologio…”

– “Si, è un bell’orologio affidabile. È un Rolex, resistente all’acqua, può cascare per terra…

– “Chi le diede quest’orologio?”

– “Il Cruising Club of America. Sono stato membro del CCA per così tanti anni. È stato molto bello per me. Al Mystic Seaport Museum si era celebrato un omaggio al design ed hanno festeggiato la S&S e me. Abbiamo fatto una cena piacevole e una gradevole conversazione; in quell’occasione mi hanno dato quest’orologio, davvero molto apprezzato”.

– “A proposito di riconoscimenti, l’Università di Venezia le ha conferito una laurea honoris causa nel 1991”

– “Anche questa è stata una cosa che mi ha fatto piacere. A quel tempo, all’Istituto di Architettura di Venezia lavorava il professor Antonio Marruco, tuttora amico mio, un velista interessato a quello che avevo fatto. Nel 1991 mi offrirono la laurea. Ma in quel periodo mia moglie non stava bene e non me la sentii di partire e lasciarla sola. Mio figlio, il più grande, che porta il mio stesso nome, venne qui e fu trattato piacevolmente. Gli diedero l’attestato e un paio di buoni libri da consegnarmi. Ho pensato che fosse generoso da parte della scuola di architettura assegnare una laurea ad un uomo senza background accademico che non è mai stato un architetto. Mi hanno omaggiato senza che avessi tutte le qualifiche più ortodosse, dimostrando un approccio di ampie vedute. E l’ho molto apprezzato. Tony è stato davvero d’aiuto, lo incontrerò questa sera a cena…”

RESTAURARE IL MITO

Olin Stephens entrò per la prima volta nel Cantiere Navale dell’Argentario nel 1996, invitato per il varo di Dorade, uno yawl da lui progettato nel 1929, col quale vinse la Fstnet del 1931. Stephens arrivò dagli Stati Uniti il giorno prima della cerimonia, ma nonostante il viaggio non volle andare a riposarsi: era impaziente di rivedere il suo Dorade.

A distanza di 67 anni dal suo primo varo gli artigiani del Cantiere stavano dando gli ultimi ritocchi al restauro della barca, definita nel 1931 dal Times “Il più prodigioso piccolo yacht da regata oceanica mai costruito”. All’arrivo di Stephens le maestranze tennero il fiato sospeso: l’uomo che ha rivoluzionato lo yacht-design del Novecento, non solo avrebbe osservato attentamente Dorade, ma anche Nyala, un 12 metri S.I. progettato dallo stesso Stephens, ormeggiato in banchina dopo essere stato restaurato l’anno precedente sempre dal Cantiere. Ma la tensione tra i maestri d’ascia svanì immediatamente non appena lo sguardo di Stepehns si illuminò per la sorpresa di rivedere Dorade tornato al suo splendore.

Olin rivolse poche domande, fece qualche commento, ma soprattutto non riuscì a nascondere l’emozione di rivedere completamente restaurata una barca che tanto ha contato nella sua intramontabile carriera. Nacque così tra Stephens e gli uomini del Cantiere un rapporto di amicizia basato sulla stima reciproca e alimentato da un frequente scambio di corrispondenza e da successive visite. Il progettista americano, che in questi anno ha confessato di sentirsi a casa quando si trova all’Argentario, ha fatto breccia nel cuore delle maestranze per la sua grande modestia e semplicità. Stephens ha sempre osservato il lavoro con discrezione, facendo fotografie e muovendosi in punta dei piedi quasi temendo di disturbare il lavoro degli artigiani. Stephens è tornato a Porto Santo Stefano anche in occasione del Campionato mondiale degli Otto metri S.I., inviato come ospite d’onore. L’ultima visita del progettista al Cantiere Navale dell’Argentario è avvenuta nel giugno del 2001 in occasione del varo dello yawl Stormy Weather, un’altra sia creatura entrata nella leggenda dello yachting e restaurata dal Cantiere.

UN GUARDIAMARINA PER PENELOPE

(esperienza di Valerio Corniani)

“Riuscirò un giorno a salire su quella barca?”: il primo pensiero quando, le valigie ancora in mano, ho visto la prima volta Penelope.

Era la fine del luglio 2000 e stavo per iniziare uno straordinario anno come Ufficiale di complemento alla scuola Sottufficiali di La Maddalena. Penelope era lì, ormeggiata lungo la banchina della Sezione Velica: una vecchia signora che si stagliava tra i Microtomo ed i J24 della Marina, uno sloop di 12 metri in legno, costruito nel 1965 per la Marina Militare Italiana dall’Arsenale di La Spezia, su progetto di Sparkman & Stephens.

Non so se si possa parlare di amore a prima vista, però sono stato immediatamente colpito da quella barca, dalle sue linee affusolate, dai lunghi slanci, dai lucidi winch in ottone.

Quando raccontavo ai miei nuovi colleghi di essere appassionato di vela, tutti mi parlavano di “Lei”. La barca aveva da poco subito un grosso intervento di restauro ed era considerata portabandiera della Marina del mondo velico: la “Regina” della Maddalena. Veniva utilizzata – mi dicevano – per uscite di rappresentanza, al comando del Tenente di Vascello Massimo Sciutto che ne è skipper e “tutore”. Pensavo quindi fosse destinata più ad Ammiragli in visita che a Guardiamarina di complemento… mi sbagliavo! Appena ho conosciuto il comandante, mi ha subito proposto di far parte dell’equipaggio di Penelope. È difficile trovare persone veramente appassionate di vela ed è arduo organizzare un equipaggio disposto a “sacrificare” il tempo libero per uscire in vela.

Ho iniziato così a navigare su Penelope. È stato un sogno: appena le “condimeteo” lo permettevano, ci allenavamo in mare, nella splendida cornice dell’Arcipelago della Maddalena. Finito settembre, scomparsi i turisti, navigavamo, praticamente soli, tra splendide spiagge e sculture naturali di granito rosa.

Abituato a moderni yacht da crociera, sicuramente più larghi e spaziosi all’interno, ero curioso di scoprire le sensazioni che si provano su una barca progettata dal mitico studio Sparkman & Stephens.

Ad ogni uscita in mare Penelope mi ha stupito. È incredibile la sua capacità di affrontare il mare in bolina, senza sbattere sulle onde, ma fendendole grazie alla prua stretta ed alla grande inerzia (con un dislocamento di 8 tonnellate).

Non dimenticherò mai quella domenica d’inverno quando abbiamo potuto ammirare per quasi mezz’ora dieci delfini che giocavano con la prua mentre la barca, spinta da un fresco vento Maestrale, avanzava, sola in mezzo al mare, senza mai richiedere correzioni al timone.

Non avevo mai navigato su una barca così equilibrata e dolce. Sbandata assume un assetto molto stabile ed invoglia a continuare sulla stessa rotta e dimenticare che prima o poi si deve tornare indietro. Un giorno di autunno, con vento di Grecale ed un mare formato, ci siamo spinti molto ad est delle Bisce: stregati dalla gioia di andar per mare nessuno voleva virare!

Forse il segreto sta nella profonda opera viva (2.80 m. di pescaggio). Quando la barca è stata alata per fare carena, ho ammirato a lungo l’imponente chiglia allungata tipica dei progetti di Sparkman & Stephens. Mi ero sempre chiesto quali caratteristiche conferissero ad una barca simili linee d’acqua, ora penso di averlo scoperto!

Nelle regate mi colpiva molto l’ammirazione con cui ci guardavano gli altri equipaggi o i curiosi che passeggiavano lungo il molo. Mi viene in mente l’incontro, durante una regata a Porto Rotondo, con un vecchio signore francese che aveva navigato tutta l’estate da solo con la sua piccola barca di 7 metri. Quando gli chiesi perché fosse così colpito da Penelope, mi raccontò che in passato aveva posseduto una barca molto simile poi persa in una traversata delle Bocche in solitario. Caduto di notte fuori bordo, rimase attaccato alla cintura di sicurezza finchè la barca urtò uno scoglio andando completamente distrutta. Riuscì a chiamare i soccorsi grazie ad un VHF portatile che da sempre tiene, insieme ad altre dotazioni di sicurezza, in un piccolo bidone di stagno. Storie di banchina!

Certo, quando si regatava con Penelope, era difficile competere con le barche attuali ed è vero che le sue manovre poco demoltiplicate richiedevano uno sforzo maggiore rispetto ad analoghe barche moderne, ma forse questo ci ha permesso di allenarci ancora più a fondo e di formare un equipaggio molto affiatato in vista del Campionato d’Altura Marina Militare, organizzato la scorsa primavera da Venezia a Taranto con i Grand Soleil 343 della Marina. Gli “sforzi” sono stati premiati: abbiamo tagliato il traguardo a Taranto al secondo posto.

Poi a luglio è arrivato ahimè il congedo.

Ora sono tornato alla Maddalena, come turista, nel periodo dell’anno in cui la Sardegna è per me più bella. Qualcosa è cambiato: Caprera, l’isola selvaggia, è stata asfaltata, il T.V. Massimo Sciutto è diventato semplicemente Massimo, grande amico con cui condivido una forte passione per il mare. Penelope è ancora lì, ormeggiata lungo la banchina della Sezione Velica. La guardo come una vecchia fiamma: “Quando mi darai il prossimo appuntamento?”. I grandi amori non finiscono mai…

UN ITALIANO ALLA CORTE DI S&S

Alessio Liuni, classe 1969, si è laureato in architettura presso l’università di Roma nel 1996. Ha iniziato a collaborare nel dipartimento Yacht Design presso lo studio Luigi Sturchio & Partner e lo Studio Vafiadis. Durante gli ultimi tre anni ha lavorato a New York presso Sparkman & Stehens Inc.. Rientrato in Italia, con l’Architetto Stefano Austini, ha dato vita al proprio studio di architettura navale Design Group, a Roma.

Il mio incontro con la S&S ed in particolare con il suo Chief Designer Bruce Johnson è avvenuto nel 1998, quando mi trovavo negli Stati Uniti per lavoro ed allo stesso tempo ero spinto da una forte curiosità verso nuove esperienze in un contesto internazionale.

Non è stata certo ininfluente nella scelta che avrei poi fatto, la mia passione per il mare e le barche che mi ha accompagnato fin dall’infanzia; ricordo le pile di fogli che riempivo con improbabili linee di barche che non avevano molte possibilità di solcare alcun mare se non quello della mia fantasia ed oggi sono felice di poter accertare come quelle linee “fantastiche” siano diventate “reali” grazie al mio lavoro.

In questo senso sono molto grato alla S&S per l’opportunità datami di completare la mia formazine professionale partecipando e seguendo tutte le fasi di progettazione e realizzazione di un oggetto di design ed ingegneria, complesso come uno yacht.

Le precedenti esperienze italiane, presso lo studio di Luigi Sturchio – celebre per i favolosi superyacht come Nabila e Lady Moura – e successivamente presso lo studio di Giorgio Vafiadis, mi avevano avvicinato a molti dei segreti che si celano dietro il progetto di un’imbarcazione. Sentivo però la necessità di un’esperienza più ampia in uno studio dove il design, la ricerca estetica e la tecnologia fossero tradizione consolidata e riconosciuta.

La S&S era lo studio più accreditato all’estero per la mia ricerca e a posteriori mi ritengo fortunato di aver avuto l’opportunità di lavorare tre anni in un vero team di esperti, con la documentazione originale di una gran parte dello Yacht Design a portata di mano.

Ho avuto modo, infatti di ispirarmi e confrontarmi con i disegni “originali” di alcune tra le più belle barche mai disegnate al mondo ed il solo fatto di poter toccare quei lucidi ingialliti mi infondeva una carica ed un accanimento a proseguire nel mio lavoro, mai provati.

Accanto a me con consigli preziosi e stimoli costruttivi avevo Bruce Johson, capo disegnatore e Greg Matzat, capo ingegnere.

Da entrambi ho imparato molto ed in particolare quanto sia importante osservare un problema sotto molteplici aspetti e convivere, a volte faticosamente, con la necessità di cedere su alcuni principi estetici in favore di una maggior funzionalità e solidità costruttiva.

Fondamentale, per la validità delle acquisizioni teoriche, è stata l’opportunità di poter verificare l’efficacia delle scelte fatte sul tavolo da disegno durante la realizzazione e successivamente durante la vita delle barche.

In questo senso ho avuto un grande aiuto da parte di Mich Gibbons-Neff, presidente della S&S, che appena possibile mi imbarcava su alcune delle più belle barche realizzate dallo Studio.

Questo tipo di esperienza non mi era stata mai concessa in Italia: la possibilità di navigare sulle barche che avevano progettato prima di me e quindi apprezzare le scelte e – raramente! – individuare errori commessi sia in fase di progettazione che di realizzazione.

Alla S&S hanno ben chiaro come un progettista debba stare il più possibile in barca per “sentire” e “vivere” i problemi legati al design.

Durante questi tre anni passati a Ne York ho lavorato sulla maggior parte dei progetti della S&S e ce ne sono alcuni ai quali sono particolarmente legato come Zingaro, uno sloop di 111 piedi in alluminio, Blue Sky Messanger, un aeroring in composito di 65 piedi, Anson Belli m ,ptp Yacht di 147 piedi ed infine il restauro di Zwerver, uno stupendo S&S del 1956.

Alla S&S mi è stata offerta la rara possibilità di crescere ed imparare senza riserve o timori di potermi insegnare troppo.

Questa esperienza così forte e ricca non ha però spento in me il desiderio di tornare a lavorare in Italia per iniziare una nuova sfida personale che nessuno studio, se non il proprio, può permettere.

Ciò nonostante, il mio legame con la S&S non si è rotto e si rinnova tutte le occasioni che ho di vedere o lavorare su barche progettate da questo grande studio.

NEW YORK 1928: NASCE LA SPARKMAN & STEPHENS INC.

Nel gennaio 1928 un giovane poco meno che ventenne con la passione per le barche a vela tacciò il disegno delle linee d’acqua di un 6 metri SI e lo spedì a una rivista nautica: Yachting. Il disegno non sfuggì all’occhio del più acuto broker dell’epoca, Drake Sparkman, che offrì una scrivania ad Olin Stephens, egli, l’anno dopo, l’11 novembre, Dake Sparkman con i suoi due fratelli James e James Murray, Olin e Rod Stephens, si associarono formalmente. Nasceva la Sparkman & Stephens Inc..

Il disegno S&S n° 1, il One Design Sound Junior Class, noto anche con il nome di Manhasset Bay Dinghy fu una piccola barca per ragazzi. La società però stentava a decollare. Allora il padre di Stephens commissionò una barca di 16 metri: Dorade (1929, disegno S&S 7).

Dal suo varo, questa barca venne definita il primo vero Ocean Racer moderno. Dorade iscritta alla regata transatlantica, con il proposito di raggiungere l’Inghilterra, dove avrebbe partecipato alla Fastnet. Si presentò alla linea del traguardo, sotto il faro dell’Isola di Scilly, quattro giorni prima dei concorrenti. Alla domanda gridata da Olin al guardiano del faro “Come ci siamo piazzati?”, ottenne la risposta “You are the first!”. Dopo la Fstnet, vinta anch’essa, Dorade venne caricata sul ponte di una nave e spedita nuovamente a New York: al suo arrivo, l’intera famiglia Stephens venne accolta con festeggiamenti mai visti prima per marinai di ritorno da una regata. L’America era rientrata nel mondo internazionale dello yachting da regata: i fratelli Stephens ne furono gli artefici.

Questo successo non doveva essere sfuggito a Walter Barnum quando, dovendo scegliere chi avrebbe progettato e costruito il regalo che doveva ricevere per il suo compleanno dalla moglie, indirizzò la lettera di commissione alla S&S. Olin disegnò l’unico shooner della sua carriera, probabilmente tra i più belli del 900: Brilliant (1932, S&S 12), oggi del Mystique Seaport Museum.

Olin Stephens non è il tipo di uomo che si siede sugli allori, è anzi il più rigido critico di se stesso: resosi conto che Dorade tendeva a rollare con mare formato e nelle andature di poppa, si mise al lavoro sulle sue linee. L’occasione perfetta fu la commissione di Stormy Weather (1934, S&S 27) da parte di Philip le Boutiller. A questa barca diede una forma diversa, soprattutto nelle sezioni sommerse, leggermente arrotondate rispetto a quelle di Dorade, aumentando il bagio massimo ed accennando ad un primo leggero incavo a prua, sotto la linea di galleggiamento. Stormy fu talmente eccezionale – probabilmente la barca che conseguì il maggior numero di vittorie nella storia dello yachting – che il progettista-scrittore inglese Uffa Fox propose di farne un monotipo.

L’attività dello studio divenne frenetica, Olin dotato per il calcolo, con un’innata vena sensibile e artistica, si dedicava allo studio dell’evoluzione delle carene. La ollaborazine con W. Starlin Burgess al disegno dell’ultimo dei J-Class, Ranger (1937 S&S 77), su commissione di Harold Vanderbilt, gli portò immensa fama e successo. Durante la progettazione, Olin adottò per primo la prova in vasca dei modelli.

Nel frattempo Rod, uno degli uomini di mare più richiesti degli Stati Uniti – isuperabile all’elaborazione dei piani velici – viaggiava per cantieri, seguendo la costruzione delle barche. Aveva anche una rubrica fissa su Yachting, intitolata con un gioco di parole Rod Rigging.

Durante la II G.M. lo studio ed in particolare Rod, diede il suo contributo. Con P.C. Putnam e D.Puleston, ideò, progettò e costruì il DUKW: il mezzo da sbarco usato in Normandia.

Quando nel dopoguerra, Carleton Mitchell decise di rivolgersi allo studio S&S per un racer-cruiser, mai avrebbe pensato che sarebbe divenuta l’ennesima stravolgente creazione firmata S&S. il giorno del varo, Finisterre (1954, S&S 1054) fu ritenuta una barca sgraziata, con quella strana forma piatta e larga, ridicolizzata anche da certuni, che ancora non sapevano che avrebbe ancora una volta rivoluzionato il concetto delle barche da diporto. Finisterre vinse le Bermuda Race (600 m. Newport-Bermuda) per tre volte (1954, 1958 e 1960, record irripetuto) e si piazzò al primo o al secondo posto a tutte le regate cui prese parte.

Comunque lo studio si è dedicato fondamentalmente ai puri racers. La barca che per definizione appartiene a questa categoria è quella di Coppa America.

Portano la firma S&S i progetti di barche che per ben otto volte si sono aggiudicate la Coppa: la Ranger (1937), Columbia (1958 S&S 1343), Constellation (1964 S&S 1773), Intrepid (1966 S&S n° 1834, vincitore nel 1967 e nel 1973) Courageous (1971 S&S 2085, vincitore nel 1974 e 1977), fino a Freedom (1980 S&S 2368).

Un record irripetibile.

Dalla fondazione, oltre 2.500 sono i disegni firmati dallo studio S&S e vi hanno lavorato le più grandi “matite”: dalla Danimarca Jim Andersen e Aage Nielsen, dall’Argentina German Frers Sr., dalla Germania Gerhard Gilgenast, dall’Olanda Johann Valentijin, dal Sud Africa Angelo Lavranos, dall’Australia Scott Kaufman e dagli USA Halsey C. Herreshoff (nipote di Nat), Francis Kinney, Alvin Mason, Gary Mull, David Pedrick, Pilliamo Langan e Robert Harris.

SPARKMAN & STEPHENS 2002

Ancora oggi, dopo ben 73 anni, la Sparkman & Stephens continua a produrre yacht veloci, affidabili, unici nel look e del progetto impeccabile, secondo i principi stabiliti dal fondatore Olin Stephens nel lontano 1929. S&S vanta la costruzione di oltre 2.690 yacht, scrupolosamente progettati e fabbricati grazie ad un sapiente connubio di architettura navale, ingegneria ed un’esperienza unica nel settore.

Nonostante l’elevatissimo livello di competizione imposto dal mercato moderno, lo studio gode di una reputazione ineguagliata nell’industria cantieristica. Il team comprende progettisti, architetti navali e ingegneri altamente qualificati che lavorano in stretta cooperazione.

Attualmente, l’azienda sta progettando diversi motoryacht, ma ha anche incrementato la produzione di yacht a vela da 12-20 metri, per venire incontro alle insistenti richieste dagli armatori desiderosi di cambiare il loro yacht S&S più classico. Inoltre, l’ampia scelta di grandi yacht fuoriserie verrà arricchita con modelli da 40 e 24 metri.

Da notare, in particolare, il crescente interesse per gli yacht più classici della S&S: sono numerosi infatti gli armatori che contattano settimanalmente l’azienda per richiedere consulenze e documentazione riguardo i loro yacht. Molti di queste barche sono in fase di ristrutturazione. Alcuni clienti sono anche interessati alla costruzione di repliche attenendosi ai progetti originali, come per il J. Class Ranger, per un commuter launch degli anni 30 ed una barca da regata di 8 metri in legno.

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