Primo dopoguerra, anni 1919-20.
Due barche con la candida vela da regata e da diporto, che le distingueva a colpo d’occhio dalle vele colorate delle imbarcazioni da pesca e da piccolo cabotaggio, lasciavano il molo dell’Ospizio Marino d’Oltra e puntavano pressoché insieme verso Porta Isolana. Non si trattava di una regata né di una prova di abilità nautica dato il breve percorso, appena 2 miglia, e il mare tranquillo con un vento di greco che spirava fresco ma non impegnativo. Richiamavano l’attenzione per un’altra ragione: la prima di esse era un noto gozzo, lungo 7 metri con 30 metri quadrati di vela, l’altra una barca nuova di costruzione e di concezione, a deriva mobile, lunga 5 metri con velatura di soli 17 metri quadrati. Con grande meraviglia di coloro che se ne intendevano, la barca più invelata non riusciva a spuntarla sulla più piccola .
Quella modesta deriva, costruita con la massima economia, era la progenitrice di una classe destinata a conseguire in Adriatico un grande successo. Un vero e proprio debutto La guerra aveva provocato la scomparsa di moltissime barche, che la ripresa del tempo di pace imponeva di rimpiazzare, come caldeggiato dall’avv. Gallo, vicepresidente del Reale Yacht Club Adriaco di Trieste e appassionato velista, il quale propugnava, raccogliendo il consenso delle nuove leve, la costruzione di una serie di derive un po’ più grandi abbandonando i vecchi e pesanti tipi che sembravano aver fatto il loro tempo. Bisognava tener conto di molti fattori determinati da componenti tecniche, eco-nomiche e sociali, di un vivaio promettente di appassionati delle vela che intendevano entrare in scena da nuovi protagonisti ma a costi accessibili.
Arnaldo de Maiti veniva incaricato di progettare un tipo da 6 metri, il progetto incontrava l’approvazione generale e nell’inverno del 1920 – 21 veniva passata allo squero di Nicolò Depangher (Bocio) una commessa di ben 12 di queste barche, mentre altre 2 venivano costruite da privati in conto proprio. Facevano la loro comparsa sui campi di regata nell’estate del 1921 col nome di “monotipi Capodistria” dimostrandosi molto veloci e pienamente corrispondenti alle aspettative.
Cominciava un’encomiabile gara fra i proprietari di queste barche al fine di perfezionarle ulteriormente, fatto che provocava inevitabilmente alcune contestazioni su quant’era lecito fare senza togliere loro la caratteristica e la qualifica di monotipo.
Nell’intento di tagliar corto ad ogni questione, d’accordo col Reale Circolo Canottieri Libertas, il R.Y.C.A. di Trieste, la Compagnia della Vela di Venezia, la Società Nautica Pietas Julia di Pola e la Società Filonautica di Trieste formavano una commissione con l’incarico di elaborare un regolamento che fissava i limiti entro i quali dovevano mantenersi non solo i “monotipi Capodistria” ma quella che diventava la yole dell’Adriatico. Il regolamento prevedeva il certificato di stazza secondo le regole ufficiali in atto, l’esclusione di zavorra fissa o mobile, un’ancora del peso compreso tra i 10 e i 15 chilogrammi, due remi con scalmo, pagliolato non sbarcabile, lunghezza massima fuori tutto di 6 metri, ordinate curve al ginocchio, superficie velica di 25 metri quadrati, deriva basculante del peso massimo di 90 chilogrammi, ed equipaggio di tre persone. Seguivano due nuove costruzioni, che si rivelarono più veloci, con la vela Marconi alzata per prima dalla yole “Gipsy”, proprietario Winterton, di costruzione capodistriana. Le barche, eccessivamente leggere, costruite al solo scopo di regata e non presentanti una solidità adeguata, potevano venir escluse dalla concessione del certificato di stazza. La giuria banditrice dei bandi di regata era facoltizzata ad eseguire , a mezzo di proprii incaricati, prima e dopo la gara, ogni verifica in ordine al regolamento. Da dire ancora che la dotazione prevedeva tre triangoli di prua (flocchi) intercambiabili, di differenti misure, ma inammissibile il bompresso.
Il Bollettino “La Vela”, commentando le regate internazionali che avevano avuto luogo nel nostro Vallone nel luglio del 1925, così si esprimeva:
“Le bellissime yole adriatiche si sono dimostrate rispondenti perfettamente alla necessità sen-tita da una gran parte di amatori dello sport nautico di possedere imbarcazioni di minor costo che potessero degnamente figurare in regate nazionali ed internazionali a fianco dei più bei campioni della vela:
“Le yole sono –si può dire- perfette in tutto, sviluppano ottima velocità tengono saldamente il mare, hanno una sagoma perfetta ; sono, si può ben dire, le sorelle minori dei sei metri. Nelle regate, con mare e vento forti, dimostrano splendidamente le loro qualità sia nella corsa che nella resistenza, destando grande interesse nel pubblico e nei competenti che pur considerando le yole fra le ottime barche, non aspettavano così buoni risultati”.
Il velista triestino Pilade Basilio, acquisita una di queste yole, dichiarava con soddisfazione: ….. “È un magnifico prodotto di quel intelligente, capacissimo e scrupolosissimo costruttore che è Nicolò Depangher di Capodistria. Egli vi ha impiegato tutte le sue cure ed infatti l’imbarcazione è riuscita perfetta in ogni sua parte. Essa ha il fasciame in cedro, il trincarino e il sogliere in olmo bianco, nervolini in frassino, coperta in abete foderata di tela”……..
Una commissione ligure, verificata la validità, adottava una barca simile alla nostra per misure e regolamento.
Alcuni giornali pubblicavano, proprio in quel tempo, alcuni articoli in risposta a quanto mani-festato dal Reale Yacht Club Italiano circa la necessità di una barca economica da regata da adottar-si come tipo nazionale. Anche Arnaldo de Maiti esprimeva il suo parere positivo in un articolo, che veniva pubblicato dalla “Rivista Nautica Italia Navale”, segnalando la yole adriatica come barca ri-spondente a questo scopo, con l’adesione del Reale Yacht Club Italiano, che compilava il relativo regolamento istitutivo della “deriva nazionale da 6 metri”, contrassegnata con la lettera A.
La nuova classe prendeva così impulso con ulteriori costruzioni tanto che si arrivava, nel 1926, al bel numero di 35 imbarcazioni ripartite fra i porti di Capodistria, Trieste, Monfalcone, Venezia, Parenzo e Zara destando l’interesse del grosso pubblico. Di esse ben 28 risultavano costruite a Capodistria, 3 a Zara, 2 a Monfalcone, 1 a Pirano. Nove di esse restavano a Capodistria quale porto di armamento ed una veniva portata in Egitto, a Ismailia, dal cap. Giovannini, capopilota del Canale di Suez. Nicolò Depangher, infatti, s’era imposto come specialista nella costruzione della “6 metri S.N.” che egli consegnava in tre tipi – economico, signorile, di lusso- diversi solo per le carat-teristiche dei materiali impiegati (fasciame, fittura, albero, guarnizioni e velatura) al prezzo di lire 5.750 , 7.300 e 12.000, prezzi non eccessivi tanto che nel 1926 le barche attive erano 61 ed altre comparivano anche in Liguria, in Toscana, nel Napoletano, in Sicilia. L’ultima a comparire da noi, costruita a Pola, è stata l’”Ardita” di Renato Fonda, segretario della sezione vela del Circolo Canot-tieri Libertas, che portava il numero 70. La Federazione della Vela del Basso Adriatico Orientale ne faceva costruire un esemplare in Basilicata.
La yole 6m.A era presente in tutte le regate locali, nazionali ed internazionali, e la flottiglia capodistriana partecipava almeno in 10 gare distinguendosi con Arnaldo de Maiti, Ducci Paulin, i Manzini, Paolone Marsi, Nicolò Depangher (non solo, quindi, costruttore) , ing.Ettore Fonda, ing. de Madonizza, e poi con i non pochi giovani usciti dal vivaio di Porta Isolana.
Nel decennio 1930-1940 il settore tipologico delle barche da regata e da diporto si arricchiva di altri tipi e cominciavano a prevalere le forme scatolari di costruzione meno specializzata e pertanto ancor più economica, a discapito della yole da 6 metri. Ma fu la seconda guerra mondiale con i suoi rivolgimenti a determinarne l’arresto.
Arresto tuttavia non definitivo perché alcuni esemplari ricomparivano nelle acque della Versi-glia richiamando l’attenzione e classificandosi subito come barche “old style” tra il gran numero delle imbarcazioni moderne di tutte le forme e di tutte le grandezze ormai imperanti negli approdi di tutti centri marinari.
Cominciavano a ricomparire sporadicamente negli anni 70 e nel 1997 anche in regata. Gli attuali armatori si sono dotati di un proprio regolamento riguardante sia il restauro delle barche vecchie ricuperabili sia la costruzione di nuove, rigorosamente di legno. Lo spessore delle tavole da co-struzione non può essere inferiore a 12 mm, la deriva basculante deve essere di metallo, facoltativo il bompresso ma non superiore a 50 cm, vela di 20 m2 con albero di m.10,50 , boma di m.5 e sartie volanti.
Addenda
Nel 1920 arrivava finalmente quel tipo, che col notevolissimo numero di esemplari scesi in acqua, avrebbe aperto la via per praticità, prestazioni, ed economicità, all’allargamento del campo sul quale poteva scendere un numero crescente di appassionati fino a fare della vela uno sport popolare. Era la yole C da 6 metri (il C sta per Capodistria, dove nasceva), ridisegnata qualche anno dopo e divenuta la notissima e amata “yole dell’Adriatico da 6 metri, stazza nazionale” col contrassegno A collocato sulla vela sopra il numero d’ordine.
Era il frutto di un felice incontro, quello del velista Arnaldo de Maiti e del costruttore Nicolò Depangher, detto Bocio, titolare di un’attivissimo canterino specializzato in barche da regata (era lui a fornire alla F.I.V. le tredici yole olimpioniche per le Olimpiadi di Kiel del 1936) e da diporto ma anche di motovelieri di una certa stazza.
Il regolamento prevedeva il certificato di stazza secondo le regole ufficiali in atto, l’esclusione di zavorra fissa o mobile, un’ancora del peso compreso tra i 10 e i 15 Kg, 2 remi con scalmo, pa-gliolato non sbarcabile ed equipaggio di tre persone.
L’imbarcazione, elegante e manovriera ma facile a “far scuffia” qualora non costruita e con-dotta a perfetta regola d’arte, ha presentato le seguenti caratteristiche:
1. lunghezza massima dello scafo fuori tutto m.6
2. larghezza massima fuori fasciame m. 1,80
3. superficie velica (compreso triangolo prodiero) m2 25
4. deriva mobile del peso massimo di kg 90
5. superficie massima immersa della deriva m2 1
6. bordo libero minimo m 0,35
7. immersione massima dello scafo (esclusa deriva) m 0,40
8. proibita qualsiasi sporgenza della chiglia oltre il fasciame ad eccezione della pinna, con superficie massima di m2 0,40
9. non ammissibile il bompresso
10. copertura della barca per non più di ¾ e non meno di ¼ della superficie della coperta, con corridoio compreso tra i 15 e i 35 cm
11. escluso l’uso di buttafuori allo scopo di maggiormente allontanare dal piano di simme-tria il peso dei componenti l’equipaggio
12. in pieno assetto di regata, barca in sommergibile
13. ossatura formata da ordinate curve al ginocchio ( esclusione dello scafo a spigolo)
14. caratteristica estetica simile alle barche da diporto e qualità nautiche adatte alle condi-zioni del Golfo di trieste.
Le barche eccessivamente leggere, costruite al solo scopo di regata e non presentanti una soli-dità adeguata, potevano venir escluse dalla concessione del certificato di stazza.
La giuria banditrice dei bandi di regata era facoltizzata ad eseguire, a mezzo di propri incari-cati, prima e dopo la gara, ogni verifica in ordine al regolamento. Da dire, ancora, che la dotazione prevedeva tre triangoli di prua intercambiabili, di differenti misure e lo spinnaker per il triangolo più grande.
In conclusione, la nostra yole è stata veramente una bella barca e ha rappresentato il primo passo vero le forme costruttive che hanno favorito la diffusione e la pratica del diporto nautico e l’attività agonistica fino vero gli anni quaranta, quando sono comparsi gli scafi a spigolo di più facile ed economica costruzione anche se non di pari prestigio.
Aldo Cherini
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