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Diario (blog)S&S

S&S China Clipper 1963 articolo YD 2001

China Clipper: la resurrezione di uno Sparkman & Stephens

Yacht Digest apr 2001

di Edoardo Napodano

La prima impressione non può che essere questa, semplicemente: una barca bellissima. Proporzioni aggraziate, linee eleganti, particolari raffinati. Il giudizio dopo la prima folgorazione, poi, è un tripudio: non si naviga, si vola. Più si passa il tempo su China Clipper e la “si vive”, più si comprende quanto il progettista non sia un mero e pur brillante uomo da tavolino, ma un vero navigatore che in barca ha vissuto e viaggiato. Fatto, questo, per nulla scontato nell’ambito dei designer. Lo si nota da innumerevoli soluzioni: dalla disposizione degli interni all’attrezzatura; dalle piccole cose, come il tavolo basculante o la stufa Taylor a nafta, fino a quelle fondamentali, come la facilità di ispezionare o sostituire i serbatoi. E come tiene il mare. Spezza le onde con un’andatura regale. Gli appassionati comprenderanno e saranno indulgenti con l’autore: quale massima gioia più che affrontare un dolce beccheggio, con i piedi saldamente ancorati su una coperta di teak e le mani sul timone di una “vecchia signora” onusta di gloria. Apprezzarne i movimenti leggiadri. Ed ascoltarne i rumori, la “sinfonia”. Dominarla con lo sguardo, dalla chiesuola al pulpito di prua e sentirne gli aromi quando dal pozzetto si scende in quadrato, mentre il munifico armatore stappa “quella certa” bottiglia. E’ come montare un cavallo di razza. Tutti i sensi ne sono coinvolti. Come lo sanno gli owners, che proustianamente riconoscerebbero il profumo del proprio yacht tra mille: una mistura di muffe di legni pregiati, vernici e nafta, più qualche altra nuance a piacere.

Un articolo molto tecnico di “Yachtsman” del febbraio 1963, in occasione del suo varo recitava: “China Clipper ha quel tipo di scafo facilmente riconoscibile, tipico prodotto di anni di progettazione dello studio Sparkman & Stephens, che è il risultato definitivo di quella schiatta”. Nulla di più vero, dal momento che la firma inconfondibile di Olin Stephens nobilita le linee di questo sloop: una sorta di triangolo ideale, smussato nella chiglia, con la pala del timone inclinata. Grande importanza data alla massima diminuzione della superficie bagnata ottenuta grazie alla mancanza di spigoli nel disegno di una chiglia non “prepotente” ed al timone  a 45°. Conseguente innalzamento del centro di gravità e diminuzione dell’azione di virata. L’esperienza del progettista  indica però questi sacrifici come un ragionevole compromesso per assicurare un adeguato rapporto tra superficie velica ed opera viva. Il baglio generoso compensa poi la ridotta leva della zavorra. Linea quindi ardita e sorprendente, dai bordi bassi quanto lo possano essere,  come molte consorelle famose e copertesi di allori sportivi, due per tutte: la gemella vincitrice alla Fastnet del 59′, lo yawl Anitra e la progenitrice  Dorade, trionfatrice alla Transatlantica del 31′, al Bermuda Race del 32′, alla Fastnet del 32′ e del 33′. Sul libro “The best of the best – the yacht design of Sparkman & Stephens” si legge di come Anitra fosse una delizia da vedere finanche per gli avversari e di come Olin ritenesse un piacere starvi al timone. Se si pensa quindi al successo di Anitra, dell’armatore svedese – americano Sven Hansen, progettata nel 57′ con armamento a yawl e considerata “miracolosamente veloce” non si può che rimanere sbalorditi dalle prestazioni di China Clipper, identica, ma armata a sloop (notoriamente più grintoso). Ma l’araldica di questo yacht meriterebbe una monografia. Il suo primo armatore e commitente, J. B. Miller presidente del Royal Thames Yacht Club, aveva partecipato alla Fastnet del 59′ (vinta da Anitra) con il suo yawl Nantucket di 38′ Sparkman & Stephens. Questo, costruito di teak sul Clyde, era a sua volta “parente” del mitico Finisterre, yawl vincitore di quattro Bermuda Race, oggi proprietà dei broker olandesi John e Josie Hofland. “Diventando i figli sempre più grossi “, Miller, oggi arzillo ultranovantenne, ordinò una gemella di Anitra, ma sloop, perché – come spiega con umorismo britannico – non voleva “troppe corde” in giro per la coperta. La costruzione venne eseguita dal cantiere Wing on Shing di Hong Kong e lo yacht, su di una invasatura di teak (!), arrivò con un cargo ai docks di Londra nel 1963, per essere allestita da Woodnuts all’isola di White. Così nacque China Clipper: un condensato di tecnologia e tradizione, con la consacrazione di Olin e Rod Stephens, giunti appositamente da New York per il varo definitivo. L’albero Proctor in duralmin, una lega dell’alluminio derivata dall’industria aeronautica, era quanto di più all’avanguardia si potesse allora immaginare; il boma avvolgiranda, oggi restaurato e migliore dei modelli attuali di rollaranda su albero, rappresentava una novità assoluta per quei tempi. Non si era badato a spese ed ancor oggi se ne apprezzano i risultati in durata e solidità: il fasciame è di teak di Burma, trasportato da elefanti, trattato con acqua e stagionato dieci anni senza volgarità come i forni; le ordinate di rovere con chiodi in rame; i madieri di bronzo; le lande distribuiscono gli sforzi fino al bulbo; la scassa fa parte di una specie di gabbia collegata a tutta la struttura della barca (come ebbe sempre a desiderare Rod S.) ed infine i serbatoi dell’acqua sono di rame stagnato con argento. La veleria, neanche a dirlo, la Ratsey & Lapthorn di Cowes: fornitrice niente di meno che dell’ammiraglio Nelson. Vi era perfino un ingegnoso sistema di ombrinali (oggi smantellato) che dal trincarino scaricava l’acqua, tramite tubature interne, dalle prese a mare, al fine di preservare esteticamente le fiancate: una piccola follia che non ebbe seguito.

Anche la signora Miller ebbe la sua parte. Soprattutto nella cucina di formica verde, allora molto in voga, poi sostituita in korian bianco. Per lei si volle prolungare il cielo di tuga verso il pozzetto, di mezzo metro, in modo da creare un comodo riparo sulle due panche.

All’inizio del 1964 China Clipper stava finalmente veleggiando verso Antigua e di lì, via Bermuda, a Rhode Island, partecipando al Bermuda Race. Faceva quindi rotta per visitare le Azzorre e tornava in Inghilterra giusto in tempo per la settimana di Cowes. Un anno sabbatico per Miller, la sua famiglia e tutto l’equipaggio regatiero di amici che negli anni a venire avrebbe portato con onore China Clipper nella “tostissima” regata di circumnavigazione di Albione “Around the Island” ed in tutte le crociere in Normandia, Bretagna e Spagna. Nel 1970 fu la volta del Mediterraneo: Italia, Francia e Baleari, dove a Pollensa nell’isola di Maiorca, si trovò base fissa per le successive scorribande. Fino a quando, troppo impegnativa per i soli Miller, C. C. venne venduta nel 1980 a Dale Peterson, un armatore americano più incline al porto che alla navigazione: iniziò così per C. C. una lunga stagione mondana. “Nessuno yacht poté mai sostituire China Clipper nel mio cuore ” fa sapere il vecchio Miller. Non è difficile credergli.

Dal 1983, battendo bandiera svizzera, iniziò un disdicevole periodo di degrado e di anni abbandono a Sestri Ponente. Solo il grande amore di Walter Gurth, l’ultimo armatore austriaco, e  tre anni di duro restauro a La Spezia, hanno riportato China Clipper a veleggiare in Mediterraneo con lo sfarzo che le si addice.

BOX restauro – armatore Walter Gurth

1997. E’ stato amore a prima vista tra Walter Gurth e China Clipper. A nulla sono valsi i consigli degli amici di non “imbarcarsi” in una simile avventura, di non farsi incantare da “una di quelle”, soprattutto se di legno. Ciò malgrado, Walter, reduce dal restauro di un velivolo Supercostellation, le si è dannato, proprio come con una divina dello spettacolo: irresistibile, fatale e dispendiosa. Se oggi guarda il programma dei primi interventi, non può che sorridere del suo ingenuo entusiasmo. C. C. sembrava la nave dell’Olandese Volante sulla quale fosse esploso uno shrapnel. Tutto è stato smantellato, motore, cucina, impianto idraulico ed elettrico. Il pozzetto non era più fissato al resto della barca, ma vi galleggiava sopra. “Più che di un restauro si trattò di un operazione di scavi archeologici…” ride l’armatore, “che ci svelò una principessa addormentata”. E proprio come una mummia che sta per disintegrarsi da un momento all’altro, venne estratta la cuscineria  Sotto orribili impiallacciature, innumerevoli interventi sacrileghi e addirittura la verniciatura della chiesuola cromata, la barca era fondamentalmente sana. La coperta fu rifatta con lunghe doghe di teak di 23 mm. incollate, non più avvitate su compensato marino impermeabilizzato con West Sistem, l’albero riverniciato e la ferramenta ricromata. Il timone fu restaurato nelle parti metalliche. Le prese a mare, sabbiate, ed i perni di bronzo erano ancora in perfetto stato. Nell’agosto 2000 il lavoro è terminato, anche se ogni armatore sa perfettamente che quando si tratta di vecchie signore “non è mai finita”.



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