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Diario (blog)

VOR 2001-2002 Leg Annapolis-La Rochelle – VIDEO parte prima

 

http://www.youtube.com/watch?v=B63c5aYYmlI

Spirit of adventure

YACHTING WORLD ITA lug 2002

Ho avuto l’opportunità unica al mondo di vivere la traversata dell’Oceano Atlantico, da Annapolis a La Rochelle, come un marinaio della Volvo Ocean Race: stessa barca, stessi turni, stessa rotta e stesso cibo. Sportivamente esaltante: all’inseguimento della VOR. Professionalmente magnifico: la soddisfazione di essere stato uno dei pochi italiani a navigare in condizioni estreme su una barca estrema. Unica pecca: non riuscirò mai più a divertirmi sotto i 15 nodi. E chi me lo dà un Volvo 60 per le crociere estive?

“……… non c’è mai stato un vero grande uomo che abbia passato tutta la vita a terra. L’ispirazione, ragazzo mio, è un respiro del mare e l’esser stato una volta fuori di vista dalla terraferma, per molti ha significato divenire un vero poeta e di altri che fingevano, è stata la loro rovina; perché non c’è da scherzare con l’oceano; spezza la falsa chiglia proprio ai masconi di un buono a nulla, gli dice chi è e glielo fa sentire anche”
Herman Melville, White Jacket, cap. LXV

Regata: Volvo Ocean Race. Tappa: USA – Europa, Annapolis (Chesapeak Bay) – La Rochelle (Golfo di Biscaglia). Percorso: 3.400 miglia nautiche. Tempo: 13 giorni e 6 ore. Periodo: maggio 2002. Barca: Volvo 60 Spirit ex Winston della Whitbread 1993-94 con il leggendario asso di Coppa America statunitense Tennis Conner. Equipaggio: 8 professionisti svedesi “massicci e incazzati” e 4 giornalisti sadomasochisti. Ruolo: marinaio semplice, ordinary deckhand. Record giornaliero in miglia percorse: 345. Record di velocità della barca: 25 nodi. Record personale di velocità: 22 nodi. Condizioni: tutte, dalla burrasca alla bonaccia, molta pioggia e perfino nebbia. Momento storico: possibile e palesato salvataggio delle ragazze disalberate di Amer Sports Too di Nautor Challenge. Maggior delusione: mancato salvataggio delle suddette. Come marinaio: sono divenuto aspirante figlio del Capitano Nemo. Come giornalista: ho un’idea di cosa voglia dire vela estrema, di che vita facciano gli equipaggi, di cosa significhi navigare su una moderna barca da regata oceanica. Forse anche del perché si inizi a pensare ad una barca nuova, più grande e comoda, per la futura edizione della Volvo Ocean Race. E sarà molto diverso, d’ora in poi, parlare con tutti i magnifici professionisti di queste regate – siano per solitari, mono e multiscafi – o di qualsiasi altro modo di andar per mare.

Prodromi
Per un giornalista di vela, seguire la Volvo Ocean Race in una tappa transoceanica, con un equipaggio scandinavo di professionisti, su di un VO 60, è più del massimo che si possa immaginare: come correre un gran premio di Formula 1 per chi scrive di automobilismo; partecipare ad una carica di cavalleria per uno storico militare; cantare alla Scala per un loggionista. Insomma, un sogno impossibile.
Chi l’avrebbe detto a Goteborg, guardando quelle immagini di fantastiche cavalcate oceaniche, piene di azione, sofferenza e salsedine, che pochi mesi dopo le avrei vissute da protagonista!
E invece …
Poco prima di partire arriva una telefonata della Volvo:
– “C’è un posto per te su un VO 60 dagli Stati Uniti alla Francia: vuoi venire?”
Silenzio attonito. Deglutisco e sfodero l’inglese meno orribile di cui sono capace:
– “Intendi dire VOLVO OCEAN RACE, seguire la TAPPA ANNAPOLIS – LA ROCHELLE a bordo di un VOLVO 60? Repeat slowly, please”
– “Hai capito benissimo. Si tratta di Spirit, l’ex Winston di Dennis Conner nella Whitbread del 1993-94. Un Volvo 60 di prima generazione”.
Mi sembra così bello e “liscio” che cerco di porre qualche obiezione, pur sapendo che ci andrei anche a testa in giù. È un occasione unica al mondo che non perderei nemmeno se mi nominassero Gran Ciambellano di Yachting World Universo Galattico:
– “Ma lo sai che da un anno scrivo di vela più di quanto non riesca ad andarci… e l’allenamento capisci…”
– “Non fare l’abelinato – più o meno il senso dall’inglese – ti teniamo in vita fino a La Rochelle, dopodiché sarà più facile che tu faccia indigestione di ostriche e champagne”.
Al caro suono dell’ultima enologica parola, con la precisa visione dei meritati ozi rochelliani, accetto senz’altro.
È un’esperienza completamente diversa – Il Paradiso Sadomaso – da qualsiasi cosa abbia mai fatto in Mediterraneo: in parte per le condizioni del Nord Atlantico, ma soprattutto per il tipo di barca, con quei maledetti, famigerati 60 piedi al galleggiamento. I più scomodi e bagnati della storia dello yachting. È come il servizio militare: se non lo hai fatto non lo puoi capire. Il passo successivo è imbarcarsi come rematori su una galea veneta.
Prima emozione – tanto per capirci –siamo partiti da Annapolis con un giorno di ritardo rispetto ai “picchiatelli” della regata, per evitare un tornado la prima notte, arrivato a seminare disastro nella Chesapeake Bay. Parafrasando Asterix che lo diceva dei Romani: “Sono pazzi questi marinai!”

La cosa più bella?
Surfare a 25 nodi di velocità tra le onde dell’Atlantico in burrasca.
Il timone diventa sempre più sensibile, mentre lo scafo sembra prendere la rincorsa: con impercettibili correzioni si prova la netta sensazione di avere la “belva” in mano. Altre volte, invece, la ruota mette a dura prova i muscoli del timoniere e di tanto in tanto bisogna lascare la randa. È un perenne cazza-lasca scandito dagli ordini trim-stop: un un uomo sta costantemente alla scotta della randa, pronto a lascare quanto arriva una raffica più forte, se la pressione diventa insostenibile; altri due sono pronti al coffe-grinder e ricazzano continuamente. Il timoniere – quello che “gode” – viene avvicendato con una certa frequenza, non tanto o non solo per la fatica, ma per la concentrazione: assolutamente vietato distrarsi. Gli occhi devono restare ostinatamente aperti – malgrado il turbinio di spruzzi e di vento – e le mani letteralmente incollate alla ruota. Difficile anche il semplice togliere acqua dagli occhiali. Fortunatamente tieni la rotta senza tenere gli occhi fissi alla chiesuola, ma al jumbo, un grande display alla base dell’albero: gradi, velocità della barca, velocità e direzione del vento… così guardi bene avanti e hai tutto sotto controllo, il mare, i compagni, la barca, gli strumenti.
A tratti la prua si “incastona” nell’onda e naviglio ed equipaggio vengono spazzati inesorabilmente dal mare. L’acqua viene spinta da una forza relativamente lenta, progressiva, ma potentissima e raggiunge ogni singolo millimetro quadrato di Spirit, sopra e sottocoperta. Per tutta la lunghezza dello scafo si alzano spruzzi spettacolari e a poppa creiamo una scia impressionante: sembra quella di un motoscafo e le creste delle onde vengono vaporizzate al vento.
E tutto questo, in fondo te lo aspetti, anzi: sei lì apposta e ti esalta, ti dà energia. Lo ricorderai tutta la vita. Ripaga di tutte le privazioni. Ti senti dentro un documentario del National Geographic o il protagonista di quelle foto dei manuali di navigazione con cattivo tempo. Sei stanco, magari stravolto; ti senti sommozzatore più che velista; hai dormito poco e male, i vestiti zuppi addosso, dentro un sacco a pelo altrettanto bagnato; fa un freddo maledetto, soprattutto nei turni di notte. Hai appena vinto il Concorso Internazionale per Trapezisti-Contorsionisti durante la sosta alla toilette; nella medesima circostanza hai fatto progressi nel tiro a segno con bersaglio mobile (mobile si fa per dire, sarebbe più appropriato “bersaglio con le convulsioni”) e meno male che c’è l’albero passante a cui aggrapparsi, così ti fai anche la doccia incorporata, visti i fiotti che passano dalla mastra. La colonna sonora di questo paradiso “infernale” potrebbe essere Wagner: le superbe, gloriose e cupe esequie di Sigfrido.

La cosa più brutta?
L’alimentazione terrificante.
Assolutamente inimmaginabile, il castigo perfetto di qualsiasi italiano, il contrappasso dantesco per i buongustai. Stefano Rizzi e Claudio Celon, gli amici italiani di Amer Sports One – gli unici dalla VOR – avevano cercato di mettermi in guardia durante “L’ultima cena”, come viene chiamato l’ultimo pasto decente a terra. Serafico, di fronte alla mia bella Maine Lobster pensavo che calcassero un po’ la mano: “Va beh ho fatto il militare, non sarà mica peggio?”. È peggio. Perfino delle razioni K che ho ricordato con struggimento. Ammetto di aver sognato una scatoletta di carne o di tonno ed ho condiviso profondamente la scena vista sulla banchina di Miami poche settimane prima: Stefano e Ciccio che imbarcano il proprio cibo personale.

U-Boot Spirit
Uno dei miei sketch preferiti durante la traversata è stato quello di fingere di essere un sommergibilista, insieme all’amico tedesco Jan-Philipp, fischiettando la colonna sonora del film U-96. Ma non c’è stato poi da fingere un gran che: per dormire vige il sistema delle “cuccette calde” come ai tempi eroici dei Lupi Grigi. Questo significa che il turno smontante (4 marinai compongono una guardia e “dormono” vestiti per 3 ore ogni 6) trova posto nelle cuccette del turno che monta in stand-by (pronto a uscire), mentre il turno stand-by diventa montante e quindi esce. Tutti e tre i turni, montante, smontante e stand-by durano 3 ore.
Anche gli “spazi” interni ricordano in modo inquietante quelli di un sommergibile ed in genere sono anche più angusti, ma le somiglianze sono molte: c’è una condensa pazzesca e continuiamo a tamponare molteplici vie d’acqua, come le lande del sartiame, le basi dei winch e la mastra dell’albero. Le minuscole cuccette superiori, infatti, sono particolarmente bagnate, oltre a richiedere un brevetto di speleologo-contorsionista per essere raggiunte.
Il motore diesel viene acceso 4 volte al giorno, mediamente un’ora o più, per ricaricare le batterie.
Ci sono taniche di nafta arrembate ovunque, come la biancheria stesa e i bagagli fluttuanti, proprio come a bordo di un U-Boot. Tutto, assolutamente tutto, compresi noi è bagnato – ed insieme al fantasma di Döenitz, aleggiano gli odori più piacevoli: un cocktail micidiale di nafta, umanità, bagnato, sentina e latrina. Tempo fa, leggevo di come le barche della VOR si annunciassero prima all’olfatto che alla vista. Ora so cosa vuol dire.
Certo ci mancano i siluri, ma in compenso abbiamo l’acqua del dissalatore e il terribile cibo essiccato a freddo e a differenza dei sommergibili, rolliamo e beccheggiamo come una tarantola impazzita. La seconda metà del viaggio, poi, la passiamo sbandati di bolina (anche se i miei supermarinai svedesi si ostinavano a non volerlo ammettere: ma no, non siamo in bolina). Con quella forza mostruosa che ti schiaccia 24 ore al giorno sottovento, mentre ti infili la muta di sopravvivenza, mentre mangi, mentre provi a dormire… sempre! A questo punto gli scricchiolii e gli schianti, il movimento sussultorio e rantolante del Volvo 60 non sono davvero nulla: anche solo il più blando di questi, sul tuo yacht in Mediterraneo, ti farebbe trasecolare. Tutte le volte sembra di speronare un container o di disalberare: “My God adesso affondiamo!”, ma ci si abitua presto.

Terra: terra in vista!
Ciò che non dimenticherò mai è l’amicizia che si crea a bordo. Un senso specialissimo di cameratismo che può nascere solo dall’esperienza e dalla sofferenza comune, affrontate con umoristico distacco. Una battuta surreale, fatta nel momento peggiore, è una vera iniezione di vita: “Indossiamo il nostro abito migliore e affondiamo da signori, gradiremmo solo un bicchiere di brandy” (Titanic). Ma le battute sono state davvero tante e ci vorrebbe un libro per raccontarle.
E quanti piccoli episodi indimenticabili! L’incontro con le balene, due vicinissime, per pochi secondi ed una lontana, in vista per molto tempo, che faceva evoluzioni e sbatteva con violenza la coda enorme in acqua. Fortunatamente nessuna collisione con i cetacei, in compenso abbiamo investito di striscio una testuggine, scorta un po’ rintronata nella nostra scia da off-shore. Oppure il giorno che per fare delle riprese originali con la telecamera stagna – a 15 nodi – mi sono messo a cavalcioni del boma, lascato, per permettermi di avere un punto di vista esterno del Volvo 60: fantastico! Eccitante, ma non altrettanto piacevole, far riprese dall’albero, con un’imbracatura da montagna: anche senza un mare particolare, l’albero ha una tale escursione e si prendono tali botte sulla vela che scendi come un boxeur suonato e se già normalmente non riesci a stare in piedi, dopo una simile avventura alpinistica, stramazzi nel pozzetto a boccheggiare per mezz’ora.
Personalmente ho trovato un filo conduttore negli sport pericolosi o estremi che mi è capitato di fare nella vita: quella particolare sensazione di essersi guadagnati qualcosa, ma ancora “meritati” la vita meravigliosa che facciamo e tutta una serie di agi e piaceri semplici od opulenti che solo così acquistano valore.
Tornato a Milano, mi hanno detto spesso “Chissà che bello; ti sei andato a divertire; te la sei passata in barca mentre noi…”. No. Sia chiaro. Non è stata una vacanza nel modo più assoluto. Meno che mai una crociera. È stata un’esperienza fortissima. Forse una delle più dure che mi siano capitate e proprio per questo mi fa piacere averla fatta. Alpinismo, sub, kayak, collegi alla “Gian Burrasca”, persino il Corso – corso invernale e che corso! – Allievi Ufficiali alla Scuola Militare Alpina di Aosta: nulla può essere paragonato all’Oceano su un Volvo 60 e sarei un ipocrita se dicessi che non sono fiero semplicemente di avercela fatta e di capire molto meglio ciò di cui scrivo ogni giorno!

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